La capacità di indagare l’animo umano permette ad Aricò di
affrontare ogni tema del vivere concentrandosi sia su figure e gesti del
quotidiano – quali la danza, gli innamorati, le figure femminili, i nuotatori,
i tuffatori, in cui l’andamento dei corpi e l’atteggiarsi dei volti sono
rivelatori di un’intima armonia che ignora contrasto, frattura, inquietudine –
sia all’opposto in situazioni drammatiche di dilaniante tragicità.
Nel monumento alla “follia” per il Museo del Manicomio nell’Isola di San Servolo a Venezia, l’artista si misura con la pazzia. Una diversità che il mondo non può accogliere nella ritualità del proprio ordine.
Nell’Elogio della follia Erasmo da Rotterdam indica la follia come elemento essenziale dell’uomo. Quell’uomo chiamato sapiens che si rivela insipiens, nel quale è continuo il gioco dialettico tra grandezza-miseria, saggezza-follia. I pregi e i difetti, le virtù e i vizi si intrecciano in un continua dibattito interno che platonicamente è inteso come “dialogo dell’anima con se stessa”, coincidenza degli opposti che domina l’intera realtà. Aricò si è immedesimato in questa sofferenza, in questo misterioso aspetto della psiche umana in cui forze primordiali paiono emergere dagli abissi del tempo. A questo tempo arcaico egli si è rivolto per trarre ispirazione scegliendo il mito di Niobe, la madre che per essersi troppo vantata agli occhi degli Dei per la sua bellissima e numerosa prole ha visto uccidere tutti i suoi figli dall’ira vendicativa di Latona. Il gruppo statuario mostra Niobe che fugge nell’estremo tentativo di salvare l’ultima nata dalla follia omicida della divinità.
E’ sconvolgente il contrasto tra la figura della madre disperata che stringe la figlia quasi a riassorbirla nella propria carne e la figura della dea che la sovrasta, il volto orrendo deformato in un ghigno di morte4, la bocca pronta ad azzannare, l’incavo delle orbite vere pozze di oscurità, la chioma tentacolare. Questo contrasto dà l’esatta misura dell’incapacità umana di riconoscere nella follia il proprio alter ego. Lo scultore è riuscito a trasformare il freddo inorganico metallo in lava incandescente, tumultuare di emozioni, brivido crudele del corpo e dello spirito. Se oggi ricerchiamo nell’estetica una giustificazione etica, all’artista è riuscito di fondere questi valori in un’opera che parla un linguaggio universale.
(Sergia Jessi)
Nel monumento alla “follia” per il Museo del Manicomio nell’Isola di San Servolo a Venezia, l’artista si misura con la pazzia. Una diversità che il mondo non può accogliere nella ritualità del proprio ordine.
Nell’Elogio della follia Erasmo da Rotterdam indica la follia come elemento essenziale dell’uomo. Quell’uomo chiamato sapiens che si rivela insipiens, nel quale è continuo il gioco dialettico tra grandezza-miseria, saggezza-follia. I pregi e i difetti, le virtù e i vizi si intrecciano in un continua dibattito interno che platonicamente è inteso come “dialogo dell’anima con se stessa”, coincidenza degli opposti che domina l’intera realtà. Aricò si è immedesimato in questa sofferenza, in questo misterioso aspetto della psiche umana in cui forze primordiali paiono emergere dagli abissi del tempo. A questo tempo arcaico egli si è rivolto per trarre ispirazione scegliendo il mito di Niobe, la madre che per essersi troppo vantata agli occhi degli Dei per la sua bellissima e numerosa prole ha visto uccidere tutti i suoi figli dall’ira vendicativa di Latona. Il gruppo statuario mostra Niobe che fugge nell’estremo tentativo di salvare l’ultima nata dalla follia omicida della divinità.
E’ sconvolgente il contrasto tra la figura della madre disperata che stringe la figlia quasi a riassorbirla nella propria carne e la figura della dea che la sovrasta, il volto orrendo deformato in un ghigno di morte4, la bocca pronta ad azzannare, l’incavo delle orbite vere pozze di oscurità, la chioma tentacolare. Questo contrasto dà l’esatta misura dell’incapacità umana di riconoscere nella follia il proprio alter ego. Lo scultore è riuscito a trasformare il freddo inorganico metallo in lava incandescente, tumultuare di emozioni, brivido crudele del corpo e dello spirito. Se oggi ricerchiamo nell’estetica una giustificazione etica, all’artista è riuscito di fondere questi valori in un’opera che parla un linguaggio universale.
(Sergia Jessi)